Enogastronomia

Alla scoperta del cibo da strada palermitano: “meusa, stigghiola, quarumi” e tanto altro…

A Palermo, l’eccesso del barocco abbaglia e incanta passando per le piazze, le strade, le chiese e attraversando i colori, gli odori e i sapori del cibo da strada nella loro cornice pittoresca che sono i rinomati mercati palermitani. Non si può dire di aver visitato davvero Palermo senza essere “passati per la tavola”. Qui il cibo, dalla tradizione millenaria, unisce, come in pochi luoghi al mondo, povertà e nobiltà, culture e popoli apparentemente distanti.

Le origini del cibo da strada

Oggi parlare di cibo da strada, o inglesizzare il termine in street food, è raccontare un modo agile, moderno, giovane di gustare il cibo passeggiando. Ma le origini di questo cibo sono umilissime; la tradizione è figlia del bisogno, mangiare più volte al giorno era appannaggio di pochi. Là dove bussava la fame si mangiava di tutto. Così è nato il cibo da strada palermitano quando per necessità si cucinavano le interiora degli animali che costavano poco e, grazie alla fantasia dettata dal bisogno, sono nati piatti unici, oggi eccellenza della tradizione, che fanno di Palermo la regina dello street food.

U pani c’a meusa (il panino con la milza)

Il più conosciuto, oggi il simbolo, è il pane con la milza, un piatto di origine ebraica che vide le sue origini nel quartiere della Giudecca, quando gli ebrei, lavorando all’interno di un famoso mattatoio del quartiere, per motivi legati alla loro religione, non venivano pagati per uccidere gli animali ma ricevevano in cambio non la carne, che era più pregiata, ma, a loro avviso, gli scarti. Gli ebrei, per monetizzare il frutto del loro lavoro, si industriarono a rendere appetibile le interiora tra milza e polmone, facendole prima bollire e poi friggere nella sugna, creando così dei panini con cui cercavano di realizzare il loro guadagno.

Il panino “c’a meusa”, oggi, viene proposto semplice o maritato, cioè con l’aggiunta di formaggio che tende ad attenuare il sapore forte della frittura.

Stigghiola – Foto di Gandolfo Cannatella – Shutterstock

Le stigghiola

Le stigghiola, altro cibo tradizionale e caratteristico sono gli intestini del vitello o del capretto. Vengono cucinate alla brace col cipollotto, a fuoco lento e poi tagliuzzate e servite con limone, sale, abbondante pepe e gustate ancora calde. Si suole gustarle nel tardo pomeriggio, oggi si direbbe come apericena. Si fanno accompagnare da un buon vino rosso di paese che i palermitani chiamano “vinum pietra”. Per questo molti palermitani sono soliti dire che il vero aperitivo l’hanno inventato loro.

Panino e panelle – Foto di CustonaciWeb

Panielli e cazzilli (panelle e crocchè)

Le panelle e le crocché sono altri appetitosi piatti della tradizione palermitana. Le panelle, create con la farina di ceci, risalgono al periodo della dominazione araba. La farina di ceci viene fatta cuocere con acqua, prezzemolo e sale come una polenta e, posta a compattarsi, raffreddandosi, in contenitori rettangolari. Successivamente si tagliano delle fette a piacere, rettangolari o a triangolo, e si friggono in olio di semi bollente per un paio di minuti. In genere le panelle si accompagnano, all’interno del panino, con i cazzilli, chiamati così dai palermitani per la loro forma “fallica”. Queste sono fatte di patate, tritate, amalgamate con prezzemolo, sale e pepe e fritte in olio di semi.

A frittula (la frittola)

Anche questo piatto nasce dalla necessità. La frittola recupera tutti i piccoli pezzi di carne rimasti attaccati all’osso. Separati e ridotti a pezzettini vengono messi a bollire e poi a friggere nello strutto. Dopo aver fritto tutto “u frittularu” mette a riposare il prodotto all’interno di panieri di vimini dove perdono l’olio in eccesso e li copre con degli stracci. Nel venderli usa come unità di misura “a cartiedda” (la cartella). In pratica raccoglie nel suo palmo la quantità che vale una porzione e la serve su un quadrato di carta per alimenti.

Arancine – Foto di CustonaciWeb

L’arancina

Sorvoliamo sull’eterna discussione circa il sesso, pardon, il genere di questa palla di riso. Ma visto che parliamo del cibo da strada palermitano, per aderenza e coerenza geografica, la chiamiamo così al femminile. Si tratta in effetti di un supplì, una palla di riso, con all’interno i diversi tipi di condimento, che viene passata nel pangrattato e fritta. Può essere di diversi gusti. I classici sono con la carne o con il burro, anche se negli ultimi anni esistono varianti di mille gusti differenti.

Mussu, masciddaru e carcagnolu (il muso, la mascella e il calcagno del vitello)

Anche qui ci troviamo a parlare di bisogni; laddove i ricchi e i nobili mangiavano filetto, i servi utilizzavano quel che loro avrebbero buttato: il muso, la lingua, le orecchie, la mascella, la mammella e le zampe del bovino. Tutti scarti che venivano prima bolliti e poi serviti freddi, cosparsi di sale. Oggi vedere le facce soddisfatte di chi li mangia, ti fa venire la voglia di provare questo cibo.

Sfincione palermitano – Foto di CustonaciWeb

U sfinciuni (lo sfincione)

Lo sfincione è la pizza dei palermitani. E’ una focaccia con un impasto molto più soffice e più spesso della pizza. È forse il prodotto che rappresenta di più la cucina palermitana perché in esso ci sono tutti gli ingredienti e i profumi dell’isola, come i pomodori, il caciocavallo, le cipolle, il pecorino, l’origano, le acciughe e l’olio extravergine d’oliva. 

A quarumi (la caldume)

La caldume è un piatto molto antico che affonda le sue radici nella dominazione greca. Si fanno cuocere tutte le parti dello stomaco del vitello in una pentola molto grande insieme a carote, pomodori, cipolle, sedano e prezzemolo. Generalmente si serve calda e fumante accompagnata dal brodo bollente.

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