Il mortaio, l’inseparabile compagno del famoso pesto alla trapanese, vanta illustri antenati
Il pesto alla trapanese ha avuto ed ha, ancora oggi, un’importanza gastronomica di grande rilievo nella cucina siciliana, conosciuto e apprezzato ovunque. Piatto semplice, dal sapore robusto e deciso, dal profumo inebriante e invadente, piatto della famiglia, della convivialità, dell’amicizia. Nasce come una storia d’amore tra ingredienti di terra e di mare, dalla comunione di elementi imprescindibili quali l’aglio di Nubia, il pomodoro pizzutello di Paceco, l’olio delle valli trapanesi, il bianco sale delle nostre saline, le mandorle dell’agro ericino, il basilico e il pecorino DOP. Tutti ingredienti baciati dal sole, dal vento e dall’aria salmastra che spira dalle coste, che si uniscono all’amore e alla passione, elementi indispensabili per perpetuare e tramandare le tradizioni.
Per fare un buon pesto serve il mortaio. Il mortaio classico, in siciliano chiamato semplicemente “u murtaru”, rigorosamente di legno, a forma di calice, è dotato di un pestello che serve a frantumare, ridurre, sminuzzare. Operazione che contribuisce a mantenere integre tutte le proprietà organolettiche degli ingredienti, dove il loro colore rimane brillante e i sapori restano naturali perché vengono pressati e mescolati e non tagliuzzati (come da più comodi e moderni mixer). II nome stesso, “mortaio”, arriva a noi attraverso il latino volgare mortarjius, che si rifà ad un più antico mortare (fare le parti), quindi dividere, spezzettare.
Andando indietro nel tempo scopriamo che la necessità di frantumare e polverizzare materiali si presentò già in epoca antichissima e i primi “strumenti” utilizzati a tale scopo furono le concavità naturali delle rocce, per poi passare, via via, a mortai di pietra. Nel tempo abbiamo avuto mortai di vetro, di porfido o agata, di bronzo o di ferro, in coerenza con i materiali da frantumare. In alcune aree, dove era assente una roccia sufficientemente compatta, furono sostituiti da essenze e forme vegetali con le quali si riusciva nello stesso intento di frantumare.
Utensili simili al mortaio per funzione, sebbene talvolta differenti per forma, si possono trovare presso tutti i popoli del mondo. (Anche la Bibbia ne testimonia l’antico uso: “La manna veniva pestata nel mortaio per preparare focacce”). Oltre che in cucina se ne fa uso in farmacia e in erboristeria e persino nei bar troviamo l’uso del pestello in mano a barman “giocolieri” che estraggono il nettare da succulenti frutti per creare deliziosi cocktail.
In Sicilia si usa il classico mortaio in legno con pestello. Fare il pesto con questo strumento è un rito che unisce al ricordo di famiglia e di casa l’acquisita manualità, un gesto imparato da bambini per averlo visto fare, dove il frantumare ha un non so che di coccola mentre si cerca, con movimento rotatorio del polso e una dolce pressione, di inviare gli odori alla mente dopo averne assaporato il gusto già nel momento stesso della programmazione della ricetta. Perché il pesto alla trapanese è subito tavolata, amicizia, allegria.
Non c’è famiglia, nel trapanese, ma non solo, che non ha in cucina un mortaio, orgogliosamente esposto, un amico dei pranzi o delle cene improvvisate, dei “4 spaghetti ce li facciamo?” Magari accanto a una bella treccia d’aglio, in bella vista, affiancata da una collana di pomodorini, sempre a portata di mano, e una manciata di mandorle tostate dalle quali affiora, trionfante, un mazzolino profumato di fresco basilico, appena raccolto! Ed è pesto, è pasta cu l’agghia e magari sono anche busiate! E’ apoteosi!