“A maidda” siciliana, dove si impastava il pane fatto in casa, protagonista di una vita contadina
A “maidda” siciliana, in italiano la madia, era un contenitore di legno a forma rettangolare simile a un cassetto. Aveva quattro maniglie che permettevano di sollevarlo e spostarlo. Veniva usato principalmente per contenere e impastare la farina per fare il pane. Fare il pane in casa era un’abitudine comune per le nostre nonne. Soprattutto nelle famiglie contadine. Questo rito si ripeteva ogni due settimane.
In queste occasioni “a maidda” era al centro dell’attività. Il capo famiglia andava direttamente al mulino a comprare la farina e, in un clima conviviale, si mandava la piccola di casa, dalla famiglia che aveva fatto per ultima il pane, parente o semplicemente vicina, per ritirare il lievito madre, il “crescente”. Questa consuetudine permetteva al lievito madre di rigenerarsi continuamente e nello stesso tempo manteneva saldi i rapporti tra le famiglie del vicinato, in un clima di fiducia e rispetto, oltre che di aiuto reciproco.
Quando tutto era pronto si cominciava col mettere la farina nella maidda, si creava un buco al centro di essa nel quale si poneva il lievito e si versava l’ acqua tiepida per cominciare ad impastare, infine il sale. A questo punto iniziava una vera e propria “battaglia”. La lavorazione dell’impasto avveniva in modo energico e veloce. Questo veniva preso a pugni con le nocche delle dita; veniva sollevato e ributtato nella maidda, girato e rigirato per fargli incorporare aria affinché potesse raggiungere una giusta lievitazione. Un lavoro faticoso che, per l’energia necessaria, richiedeva almeno l’alternarsi di due persone.
Intanto apparivano le bolle nell’impasto, segno che la lievitazione era in corso. Allora si procedeva a sezionarlo in parti per farne tante “vastedde”, “pistuluna” o “cucciddati” e, tutti i panetti così ottenuti, si mettevano a lievitare ancora una volta su un bel tavolo agghindato con bianche tovaglie infarinate e calde coperte, utili a mantenere le forme al caldo, al riparo da spifferi. A lievitazione ultimata, si mettevano tutte le forme di pane nel forno a legna, dopo aver creato, con questa, la brace e aver fatto raggiungere la temperatura adeguata a far cuocere il pane.
Alla fine dell’impasto, se “a maidda” rimaneva pulita, era segno che il lavoro era stato fatto nel modo migliore e le massaie erano orgogliose di questo loro risultato. La maidda non rimaneva per molto tempo “disoccupata” perché, finita la sua funzione di contenitore per l’impasto, diventava contenitore per il pane appena sfornato o per altri alimenti.
Capitava che “a maidda” venisse usata per contenere il pranzo di tutti quei lavoratori che, in quel contesto di famiglie, si dedicavano alla mietitura o alla vendemmia. In queste ricorrenze venivano preparate le busiate o maccaroni che si servivano direttamente nella maidda intorno alla quale sedevano i commensali, in un clima di festa e allegria, a gustare quelle specialità condite, tradizionalmente, con ragù di carne di maiale.
Forse ancora oggi c’è qualcuno che adopera “a maidda”, ma nella maggior parte delle case contadine, negli agriturismo, nei cortili o nei bagli caratteristici siciliani, le vecchie maidde sono diventate solo un pezzo d’arredamento, magari bellissime fioriere a ricordo del loro passato glorioso. Forse qualcuna resiste ancora nei musei che raccolgono e ostentano con orgoglio attrezzi o utensili protagonisti di quella sana vita contadina.