Come eravamo

Per giocare a tririticchete bastava qualche amico, un gesso, un sasso e il divertimento era grande

Chi lo conosce alzi la mano! Un gioco noto in tutto il mondo: il gioco della campana! Addirittura lo si fa risalire all’antica Roma dove era conosciuto col nome di clàudus per la sua regola principale che è quella di saltare su un piede solo, quindi assumendo un’andatura claudicante. Intere generazioni ci hanno giocato, per strada, nei cortili, sui marciapiedi e, quando lo si trovava o si trova ancora, raramente ormai, disegnato per terra, sfido qualsiasi adulto che non abbia rivissuto, riavvolgendo il nastro dei ricordi, giorni felici e spensierati, saltellandoci dentro, anche con le buste della spesa nelle mani.

Gioco della Campana – Foto di NadyaEugene – Shutterstock

Conosciuto con nomi diversi nelle varie nazioni, in Sicilia tririticchete, diversificandosi poi di paese in paese. Eccone alcuni: a ria, u sciancateddu, u piruzzu, u quatratu, popò, u campanaru, trinca e ancora u tuornu, a quadrella, a settimana, a maredda. Bastava un sasso appuntito o un bastone, su terra battuta , un pezzo di carbone o un gesso, sull’asfalto, e il gioco era pronto.

Economico, divertente, socializzante e con regole ben precise. Si disegnavano per terra dei quadrati numerati da uno a dieci, disposti in un percorso dove alcuni erano singoli, altri doppi e affiancati. e si terminava con l’ultima casella, a volte con una forma arrotondata, cui veniva dato il nome “paradiso”. Occorreva un sasso piatto, perché non rotolasse, e il gioco era pronto. Si stabiliva, magari con una conta, l’ordine di partenza e via!

Un gioco all’apparenza semplice ma in esso sono contemplati, abilità fisiche, il senso di equilibrio, la mira nel centrare la casella giusta, quindi concentrazione e, non da poco, il rispetto delle regole, il saper perdere e riprovare ma, soprattutto, il sapersi divertire e trascorrere delle ore all’aperto, socializzando, ridendo e crescendo confrontandosi. Non era un gioco da maschi o da femmine, si giocava insieme, senza pregiudizi.

Le regole erano abbastanza rigide. Il primo giocatore doveva tirare un sasso nella prima casella, doveva centrarla e non toccare le righe. Così cominciava a giocare saltellando su un solo piede sulle caselle singole, evitando quella dove si trovava il sasso. Poteva poggiare entrambi i piedi nelle caselle vicine. Un attimo di riposo, il tempo di riprendere l’equilibrio e via fino all’ultima casella, una sorta di area di sosta dove, facendo un giro, ritornava indietro con la stessa modalità.

Doveva riprendere il sassolino, sempre in bilico su un piede, e il gioco, se non si cadeva e se non si toccavano i bordi delle caselle, continuava andando avanti di casella in casella, oppure, in caso di errore, passava al successivo giocatore.

Le difficoltà erano sempre più grandi andando avanti; le cadute e le risate erano assicurate, tra amici, senza litigare. Si faceva buio senza accorgersene; lo si capiva quando dalle case si sentivano cori di mamme che richiamavano i loro figli e i ragazzi, puntualmente rispondevano “cinque minuti”. Quei cinque minuti avevano un tempo indeterminato!

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