Il dramma della Valle del Belìce. 56 anni fa il terremoto radeva al suolo l’identità di un popolo
Nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968 la Valle del Belìce, terra di contadini nell’ovest della Sicilia tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento fu scossa nelle viscere da uno dei più gravi e devastanti terremoti italiani del Secondo dopoguerra. Le scosse iniziarono a metà giornata del 14 gennaio e continuarono per diversi giorni: la più forte fu quella della notte del 15 gennaio, alle 3.01, un tremendo sisma di magnitudo 6.1 rase al suolo interi paesi. A questa seguirono altre 16 scosse. Lo sciame sismico andò avanti fino al febbraio del 1969. 296 persone persero la vita e in centomila si ritrovarono d’un tratto senza una casa.
I paesi più colpiti furono Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa e Vita. Dopo le scosse del 14 gennaio molte persone decisero di dormire all’aperto così che si risparmiarono alcune vite per la scossa nella notte del 15. Il 90 per cento degli edifici subì danni irreparabili. Per queste ragioni i paesi di Poggioreale e Gibellina furono abbandonati e ricostruiti a chilometri di distanza.
Le macerie di Gibellina furono trasformate in un monumento da Alberto Burri, che le ricoprì di cemento mantenendo le linee di quelle che un tempo erano le strade del paese, mentre Poggioreale ancora oggi, si mostra come una grande città fantasma ferma ai giorni del terremoto, uno scheletro di case e chiese abbandonate.
La ricostruzione in ogni caso non avvenne nel migliore dei modi, tanto che ancora oggi alcuni edifici non sono stati ristrutturati. Nel 1976 ancora 47mila persone abitavano nelle baracche allestite dopo il terremoto, le ultime rimaste furono demolite solo nel 2006. Molti abbandonarono la valle del Belice per sempre. Paesi in cui già c’era una grande emigrazione per via delle scarse possibilità economiche, si spopolarono ancora di più.
Il terremoto fece cambiare il nome dell’area in cui avvenne: la pronuncia originaria del nome della valle era “Belìce”, mentre per via dell’influenza dei giornalisti non siciliani che parlarono del terremoto, oggi la si chiama “Bélice”.
Sembra una beffa. Inconsapevole destino per un popolo che, dopo i lutti, dopo aver perso le case, i ricordi di una vita, dopo i sacrifici e gli stenti, dopo aver visto partire i suoi giovani in cerca di lavoro, dopo le lunghe attese dei loro ritorni, ha visto in un sol colpo sparire la sua identità, per un accento spostato da una pronuncia che massifica e non si documenta, da una fretta di raccontare e di non approfondire, da una voglia di essere in prima linea a documentare le cose e non a leggere nell’anima umana.
Il Belìce è scomparso sotto le scosse del terremoto e quel che resta parla di altro, parla di paesi spostati altrove, di ricostruzioni frettolose, di spopolamenti di massa, di anziani smarriti, di ricordi perduti, di accenti distratti. Il Belìce in questi giorni riapre la ferita e chissà se l’accento ritorna e si mette al posto giusto. La ì aspetta!