“U zimmili”, quando erano gli animali a portare il peso delle cose
C’erano una volta, in Sicilia, abili “cannistrari” in grado di creare, con mosse strategiche, sicure, quasi fosse una danza, dei veri capolavori con quella padronanza del lavoro artigianale, creativo, unico che è andato scomparendo quando, a sostituire la mano dell’uomo, sono subentrate le macchine, quando ai prodotti naturali ricavati dalle piante sono subentrate le materie sintetiche e le plastiche. Quando tutto si è uniformato e il prodotto ha perso l’anima di chi lo creava e la sua unicità!
L’intrecciatore era uno dei tanti protagonisti, non solo in Sicilia, di quei mestieri antichi, che sono andati perduti. Quei mestieri che, nelle società agropastorali, erano in grado di realizzare oggetti di uso quotidiano e necessari al lavoro come cesti, canestri e panieri di diverse forme e misure utilizzando giunco, vimini, canne, foglie secche di palma nana ed anche di altre piante con l’aiuto di semplici strumenti come forbici, aghi speciali, spago e magari pezzi di stoffa per decorare e qualche sonaglio, non solo decorativo, ma anche funzionale a far sentire dove fosse posizionato l’oggetto.
Tra gli “Ntrizzaturi” (intrecciatori) se ne distingueva uno in particolare, “u Zimmilàru”, che realizzava grossi contenitori, detti appunto zimmìli, che venivano sistemati in coppia, alle due estremità di un bastone, in modo da bilanciarsi ed essere disposti sul dorso dell’animale da soma, fosse asino, cavallo o mulo, e scivolavano in coppia, uno alla destra e l’altro alla sinistra, lungo i fianchi dell’animale. Queste grosse borse servivano ad alleggerire il lavoro dell’uomo rendendo agevole il trasporto di oggetti e prodotti agricoli, come il grano per esempio, soprattutto nel percorrere stradine impervie e sentieri accidentati.
Erano grandi borse, profonde sino ad un metro e venti, erano realizzate in giunco intrecciato finemente, in modo da garantire sia resistenza, per il peso da trasportare, sia sicurezza, per il trasporto di materiale piccolo e sfuso come terra, sabbia, pietrisco, grano ecc. Infatti l’intreccio fitto assicurava che il materiale non fuoriuscisse dagli “zimmili”.
Questo sistema di trasporto delle merci probabilmente si può far risalire ai tempi degli arabi, da cui probabilmente deriva il termine zimmili. E’ stato usato, nel tempo, il termine zimmile come unità di misura ma variava a seconda del materiale trasportato. Se il materiale era leggero, ogni zimmile doveva contenerne circa 1,40 metri cubi di quel tipo di materiale, se invece si trattava di materiali più pesanti si doveva diminuirne il volume anche per la salute dei poveri animali addetti al trasporto. Otto zimmili corrispondevano ad una carrozzata, ossia alla capienza di un carretto.
Successivamente questa unità di misura è cambiata, adeguandosi al tipo di merci trasportate. Ma ancora sussiste nel dialetto antico per indicare una grossa quantità, imprecisata. Oggi troviamo a Palermo una piazzetta intitolata agli Zimillari, nelle vicinanze del noto mercato di Ballarò, a testimonianza di un mestiere che non esiste più.
Alcuni zimmili restano appesi al chiodo nelle case di campagna o meglio in quei musei che raccolgono testimonianze della civiltà contadina. A volte emergono e riprendono vita in occasioni particolari e nel corso di manifestazioni popolari o eventi.