“U custureri”, il sarto artigiano, che riparava, sarciva e confezionava abiti su misura
Veniva chiamato così il sarto di paese, “u custureri” che faceva riparazioni, sarciva, metteva le toppe e si occupava di tutti quegli aggiustamenti di cui necessitavano gli abiti. Erano tempi in cui i vestiti passavano da un fratello all’altro, tempi in cui si rivoltavano i cappotti e diventavano “comu novi”. Poi negli anni sessanta si diffuse l’arte di confezionare abiti su misura, destinati naturalmente a chi poteva permetterselo. Le famiglie meno abbienti provvedevano da sole, in casa, al confezionamento e alle riparazioni. Cose semplici, essenziali. In ogni casa c’era una macchina da cucire, rigorosamente a pedale. Oggi ancora ne troviamo in molte case come elementi di arredo; pezzi che raccontano ore di luce, schiene curve, mani veloci e pedalate sapienti.
Era un mestiere pulito, non servivano molti spazi, si poteva lavorare nella propria casa con pochi attrezzi essenziali come “a fobbicia“, delle forbici in acciaio , “a ugghia“, l’ago, “u sìgnu“, il gesso colorato o bianco utile a disegnare sulle stoffe e poi “u ferru“, il ferro da stiro che era quello a carbone sostituito successivamente da quello elettrico e poi anche a vapore. Tutti attrezzi che si portavano, al bisogno, sul tavolo di legno o sulla “tauletta”, quella piccola da appoggiare sulle gambe per imbastire o insegnare.
Nascevano botteghe familiari dove i giovani apprendisti andavano ad imparare. C’erano “i mastri”, i maestri. E si faceva un distinguo tra “sarto d’uomo” e “sarto da donna” a seconda del genere cui erano destinati gli abiti che si andavano a confezionare. E una volta imparato il mestiere, si moltiplicavano i “laboratori”. Era considerato un lavoro leggero, pulito e ben pagato, quello del “custureri” perciò si diffusero tanti sarti specialisti come modisti, camiciai, bustai e, appunto, sarto da uomo e sarto da donna.
Chi poteva andare dal custureri sapeva che doveva affidarsi e aspettare. Bisognava scegliere la stoffa ed erano tessuti naturali, di origine animale o vegetale; quindi lana, seta, lino o cotone. Poi si sceglieva il modello e il sarto prendeva le misure col suo bel “metru” da sarto, appoggiato sulle spalle: misurava e annotava. Poi procedeva al taglio della stoffa, all’imbastitura e alle prove. Più di una perchè il capo doveva “calari a pinzeddu”, cioè doveva sembrare disegnato addosso.
Poi sono arrivati i tessuti acrilici, le fibre artificiali, i vestiti belli e pronti da provare, con costi più accessibili per tutti e ultimi sono arrivati i cinesi e il culto degli abiti su misura si è ridimensionato, destinato a pochi finché la scuola italiana e la creatività del made in Italy si incanalò verso le grandi firme. Oggi il sarto propriamente detto, lavora negli atelier dell’alta moda che realizza capi unici, dai costi stratosferici e che vengono presentati nelle sfilate di tutto il Mondo per un pubblico facoltoso.
Il nostro “custureri”, colui che metteva le toppe, aggiustava, adattava e riparava perché le cose durassero di più, oppure cuciva abiti su misura per soddisfare i bisogni o i capricci dei benestanti, ha cambiato direzione portando la sartoria italiana in tutto il mondo; oggi è uno dei settori artigiani trainanti dell’economia italiana e che ha fatto grande l’Italia nel mondo.
Però come negli altri settori, dall’agricoltura, alla cucina, all’artigianato, c’è negli ultimi anni un ritorno dei giovani ai vecchi mestieri con un rinnovato spirito e con la consapevolezza di avere nelle proprie mani il futuro del paese.