Superstizioni

Magia e credenze popolari: quando i “patrunedda di casa” abitavano nelle case dei siciliani

Certo che i nostri nonni, e prima di loro gli avi, non avevano una vita agiata; conducevano un tenore di vita piena di sacrifici e di sofferenze. Le malattie, le carestie e la poca istruzione facevano sì che cercassero conforto e rifugio nelle credenze, senza fare distinzioni tra fede, che chiamavano “cosi di Diu” e superstizioni vere e proprie. Così, fede, preghiere e scongiuri convivevano per essere più efficienti. Chissà mai, dove non arrivava l’una, avrebbe potuto l’altro! Se, ad esempio, si rompeva uno specchio, cadeva la bottiglia dell’olio, ti attraversava un gatto nero e altro, aiuto! Quante disgrazie, quanti anni di sofferenza e quanti scongiuri. E allora si mettevano in atto vari gesti per scongiurare futuri malanni. Ecco le corna, il ferro di cavallo, e il sale buttato alle spalle.

Foto di Michael Swanson da Pixabay

Altra branca della famiglia delle credenze/superstizioni, che erano, e sono ancora, dure a scomparire, appartengono “a pigghiata r’occhiu”, e a “tuccata stommacu”. In famiglia si era già tanto fortunati se avevamo una zia para … normale, pensate voi? No niente di normale, guaritrice. Alzi la mano chi, superati gli anta e anta ancora, non ha conosciuto o non conosce ancora un “don” che levava la fattura, o faceva “a piagghiata r’occhiu ecc. con tutte le litanie e la gestualità tipica che accompagnava queste operazioni al limite della stregoneria.

Io potrei parlare di un uomo che chiamavano Safina, non so se fosse il suo nome o il nome d’arte. Io non l’ho mai visto, ma lo “ricordo” con un anello grosso, lui uno gnomone con la barba bianca lunghissima e un panzone rotondo proprio come Brontolo, che sciorinava frasi senza senso e tutti pendevano dalle sue labbra. Credo che tipi così ancora esistono e resistono; somministrano cure tra decotti e impacchi; praticano visite con distorsioni muscolari e massaggi. E la credulità popolare si sente rinfrancata tra il ci credo e non ci credo, “tantu mali unni fa”. Una volta il popolo era più semplice, più credulone e certe tradizioni, certe credenze popolari apparivano come delle grandi verità.

Anche le storie di diavoletti, folletti, spiritelli che abitavano nelle nostre case. Erano esseri “impalpabili”, avevano nomi diversi a seconda della zona: “donni di fora, gintuzzi di casa”. A Trapani le chiamavano “patrunedda di casa”. E non sorridiamo pensando fossero cose della preistoria. Io mi ricordo bene quando siamo venuti ad abitare nelle “case nuove”. Io non avevo ancora 7 anni, le stanze mi sembravano enormi, vuote rimbombavano dell’eco delle nostre voci. Mia mamma aveva comprato delle belle patate grosse che abbiamo buttato nelle stanze, facendole rotolare per terra come bocce con un accompagnamento di “Iò ti rugnu patatuna e m’ha dari dubbuluna” (riferimento ai dobloni, moneta antica). Quindi un appello alla protezione e all’aiuto.

Gesti propiziatori per accattivarsi la simpatia dei “patruneddra”. Chissà come avranno reagito quando il mio fratellino, di neanche 3 anni, le ha buttate tutte dal balcone. Lui si sarà divertito un mondo, non so mia mamma! Ricordo ancora quando è nato l’altro mio fratellino, allora avevo quasi 9 anni. Mia nonna l’ha portato in giro per le stanze, negli angoli, per invitare i “patrunedda” di casa con la frase di presentazione “cca lu fici so matri”, inviti utili per accattivarsi la simpatia delle fatuzze che altrimenti si sarebbero offese e, per vendetta,  avrebbero potuto scambiarlo con un altro. Ecco da dove nasce la frase “canciatu di fati”. Nasconde un altro mondo di tristezza e ignoranza mista quasi a stregoneria (che ometto volutamente).

Ricordo ancora mia mamma quando entrava in casa, e la casa era vuota. Lei usava salutare, fino all’ultimo. Allora non avevo realizzato. Adesso capisco che salutava i “patruneddra” casa.

“Li scrippiuna” (i gechi) erano considerati la personificazione vivente di questi padroni di casa, tanto che ancora oggi, quando un geco entra in casa, non viene mandato via, perché si ritiene che porti fortuna. Si tratta di credenze popolari, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

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