Sfince, tombole e pranzi affollatissimi. Ricordi belli e nostalgici del Natale siciliano degli anni 60
Del Natale degli anni 60, ricordo poco, forse perché, quando ero piccola io, non c’era quell’amplificazione che oggi ne fanno televisione e supermercati. Ricordo una festa intima, di famiglia, con le nonne, (i nonni non c’erano più), a volte con zii e cugini. Ma non con quell’aria di opulenza, di ostentazione di cenoni, di corse anticipate all’accaparramento, di carrelli stracolmi, di “cosa fai per il cenone”, un tormentone che dall’Immacolata in avanti, oggi, aleggia in tante famiglie.
Forse ero distratta o poco partecipe, forse c’era poco e da strafare non se ne aveva voglia né possibilità, e, soprattutto, non si era ancora dentro quel tritatutto della pubblicità e del consumismo bulimico che, appena passato halloween, ti invia segnali e immagini nascosti ma inequivocabili che la prossima tappa è Natale.
Dei miei “Natale” ricordo solo due cose con piacere e nitidezza: le sfince la sera della vigilia e la tombola! Addette a fare le fatidiche sfince la mia mamma e mia cugina. Loro due erano molto legate, madrina e figlioccia, quasi fossero mamma e figlia, o due sorelle. Ecco, quello lo ricordo come un momento bello, di serenità, di allegria, con un senso di famiglia, un momento di convivialità sana. Ho impressa la loro immagine come in una foto mentre “cavavano” dalla mafaradda la pasta che continuava a crescere. Lievitava come fosse il pozzo di San Patrizio. Più ne tiravano su e più cresceva. Immergevano la sfincia, buco o non buco nell’olio bollente e rotolata, rigirata e abbronzata era pronta.
Tante sfince, zucchero e cannella e il fumo e l’odore dell’olio come da rosticceria. Ricordo il gioco/scherzo a sorpresa della sfincia fatta di proposito con la sorpresa dentro per colpire, con una risata, chi allungava la mano sulla più grossa. Ed erano risate semplici e innocenti. E mentre si continuava a friggere le sfince, nella stanza a lato altro fumo e altra atmosfera. Fumo di sigarette e vociare di grandi e piccini come in una bisca clandestina. Perché, immancabile, c’era la tombola.
Quel sacchettino col suo laccetto logoro che ogni anno prendeva una boccata d’aria e diventava protagonista assoluto delle feste di casa mia. Sballottolato con i suoi 90 numeri da provetti croupier, si dava arie da dispensatore di fortuna. Solitamente tenuto dal capo famiglia, ma ben presto detronizzato perché le nostre donne erano abbastanza emancipate da succedere con successo al boss di casa. Era l’unico momento in cui vedevo mio padre diventare bambino e divertirsi a sparare quelle battute, quasi osè per i tempi, che legano ogni numero a un suo significato nella smorfia. E poi il tintinnio delle monete.
Si cominciava già da tempo a imboscare le monete. –“Queste le metto via perché servono per la tombola!” E così si fissava un valore per ogni cartella, si facevano i mucchietti per le varie combinazioni di presa, si preparavano lenticchie o fagioli e si cominciava col primo numero estratto. E immancabile al primo numero c’era chi solennemente gridava “ambo”! E poi di routine la nonna, ma non solo lei: “Che numero ha detto?” oppure “Il tal numero è uscito?” E ancora:- “Il terno l’hanno già fatto?”… “Sta cartella non vale niente, la cambio”.
E così finché, fritte tutte le sfince, anche le due donne si sedevano con noi e si passava a mangiarne un bel po’ aspettando, con innocente divertimento, chi prendeva quella truccata e, tra una battutina e una risata, finiva la serata! Le sfince rimaste, l’indomani, erano ancora più buone.