Per giocare a tririticchete bastava qualche amico, un gesso, un sasso e il divertimento era grande
Chi lo conosce alzi la mano! Un gioco noto in tutto il mondo: il gioco della campana! Addirittura lo si fa risalire all’antica Roma. Era conosciuto col nome di clàudus per la sua regola principale che è quella di saltare su un piede solo, quindi assumendo un’andatura claudicante. Intere generazioni ci hanno giocato, per strada, nei cortili, sui marciapiedi. Spesso lo si trovava o si trova ancora, ormai raramente, disegnato per terra. In questi casi sfido qualsiasi adulto che non abbia rivissuto l’emozione antica. Riavvolgendo il nastro dei ricordi, giorni felici e spensierati, ci saltella dentro, anche con le buste della spesa tra le mani.
Conosciuto con nomi diversi nelle varie nazioni, in Sicilia tririticchete, diversificandosi poi di paese in paese. Eccone alcuni: a ria, u sciancateddu, u piruzzu, u quatratu, popò, u campanaru, trinca e ancora u tuornu, a quadrella, a settimana, a maredda. Bastava un sasso appuntito o un bastone, su terra battuta , un pezzo di carbone o un gesso, sull’asfalto e il gioco era pronto.
Economico, divertente, socializzante e con regole ben precise. Si disegnavano per terra dei quadrati numerati da uno a dieci. Questi erano disposti in un percorso dove alcuni erano singoli, altri doppi e affiancati. Si terminava con l’ultima casella, a volte con una forma arrotondata, cui veniva dato il nome “paradiso”. Occorreva un sasso piatto, perché non rotolasse, e il gioco era pronto. Si stabiliva, magari con una conta, l’ordine di partenza e via!
Le regole del gioco
Un gioco all’apparenza semplice ma in esso sono contemplati, abilità fisiche, il senso di equilibrio, la mira nel centrare la casella giusta. Necessarie quindi concentrazione e, non da poco, il rispetto delle regole, il saper perdere e riprovare. Ma, soprattutto era fondamentale il sapersi divertire e trascorrere delle ore all’aperto, socializzando, ridendo e crescendo confrontandosi. Non era un gioco da maschi o da femmine, si giocava insieme, senza pregiudizi.
Le regole erano abbastanza rigide. Il primo giocatore doveva tirare un sasso nella prima casella, doveva centrarla e non toccare le righe. Così cominciava a giocare saltellando su un solo piede sulle caselle singole, evitando quella dove si trovava il sasso. Poteva poggiare entrambi i piedi nelle caselle vicine. Un attimo di riposo, il tempo di riprendere l’equilibrio e via fino all’ultima casella. Questa era una sorta di area di sosta dove, facendo un giro, ritornava indietro con la stessa modalità.
Doveva riprendere il sassolino, sempre in bilico su un piede. Così il gioco, se non si cadeva e se non si toccavano i bordi delle caselle, continuava. Ancora andando avanti di casella in casella, oppure, in caso di errore, si passava al successivo giocatore.
Le difficoltà erano sempre più grandi andando avanti; le cadute e le risate erano assicurate, tra amici, senza litigare. Si faceva buio senza accorgersene. Lo si capiva quando dalle case si sentivano cori di mamme che richiamavano i loro figli e i ragazzi, puntualmente rispondevano “cinque minuti”. Quei cinque minuti avevano un tempo indeterminato!