Le Cave di Cusa, il sito da cui vennero estratti i blocchi per la costruzione dei templi di Selinunte
di Sergio Pace
Il Parco Archeologico di Selinunte con i suoi 270 ettari circa (tre volte più grande del complesso di Paestum e sette volte l’estensione del complesso Foro Romano-Palatino) rappresenta uno dei siti archeologici più grandi e straordinari del Mediterraneo. Vera e propria “culla dello stile dorico” Selinunte affascina ogni visitatore per le sue memorie storiche, la grandiosità delle sue rovine e la ricchezza e la varietà del suo tessuto urbano.
La sua zona archeologica è costituita da tre zone distinte: troviamo i tre templi G, F, E nella collina orientale, ad est dell’acropoli della città, al di là del torrente Ipsas o Cottone; l’acropoli accoglie i resti di cinque templi: O, C, D, A, B; nella zona ovest, in località Gaggera, si trovano i resti dell’antico santuario detto Malophoros (la portatrice del melograno), divinità locale assimilabile alla Demetra dei Greci, situato a 500 metri dalla foce del fiume Selinus o Modione, sulla strada che portava alla grande necropoli di Manicalunga. In contrada Cave di Cusa, a 13 km da Selinunte, è possibile visitare le cave di pietra di Selinunte, oggi dette Cave di Campobello di Mazara.
A Selinunte si trovano le latomie (da las= pietra e dalla radice tom= tagliare) più antiche. Le cave di pietra più famose si trovano a Siracusa, utilizzate anche come vere e proprie carceri dell’epoca. Infatti, in occasione della spedizione ateniese in Sicilia e dopo la battaglia tra Atene e Siracusa, in queste vennero resi prigionieri i soldati ateniesi sconfitti. Le Cave di Cusa-Selinunte furono attive per diversi secoli e, molto probabilmente, vennero dismesse improvvisamente nel 409 a.C, a seguito del sopraggiungere dell’esercito cartaginese guidato dal generale Annibale Magone, figlio di Giscone, che occupò, saccheggiò e distrusse Selinunte dopo nove giorni di assedio.
Proprio la repentina messa in fuga degli scalpellini, dei cavatori e degli operai che vi lavoravano, ci ha permesso di conoscere le varie fasi di lavorazione, di estrazione e di trasporto dei rocchi di colonna. Possiamo notare, infatti, ancora i diversi stadi di lavoro di scalpellamento per ottenere tamburi di colonne. Gli antichi ingegneri seguivano un procedimento ben definito. Si praticavano profonde incisioni circolari nella roccia. Dopodiché si iniziava a scavare la roccia intorno all’incisione, per poi incidere e staccare la base del tamburo con i cunei di legno bagnati con dell’acqua in modo da permettere la dilatazione del legno e, dunque, la rottura della pietra.
Seguiva poi il trasporto del tamburo che veniva rivestito con una intelaiatura di legno arrotolata da una fune. Un carro trainato dai buoi e dagli schiavi trasportava il tutto. Ancora oggi si possono vedere diversi rocchi finiti che attendevano soltanto di essere trasportati via.
Fonte bibliografica: Giovanni G., Selinunte-il fascino della civiltà greca e cartaginese, pp. 25-29, Edizioni Di Giovanni, 1991