Storie

La Festa di San Giuseppe a Custonaci tra “ammitu” e “jocu di pignateddi”: ricordi ed emozioni di un bambino

di Giuseppe Lombardo

Questa mattina a svegliarmi alle 7.00 è stato un inaspettato e festoso scampanio. Colto di sorpresa mi sono chiesto cosa fosse successo. Poi ho realizzato, e i ricordi sono affiorati prepotenti e nitidi. Travolti e assorbiti come siamo, oggi, dal quotidiano, pandemia compresa, mi ero dimenticato che oggi, 30 Aprile, si aprono i festeggiamenti che precedono la giornata del primo maggio, a Custonaci, in particolare a Sperone, piccola contrada del paese, dove si trova una chiesa, costruita nella seconda metà del 900, dedicata a San Giuseppe, santo protettore dei lavoratori.

Per questa ricorrenza, in onore del Santo, si svolgono eventi e riti, giochi e tanta festa, soprattutto per i bambini. Subito la memoria è riemersa nitida e, ancora a letto, con lo sguardo fisso al soffitto, d’un tratto, mi sono rivisto, gracile e ricciolino, vestito a festa, mentre mi avviavo a piedi da casa mia, verso la piazza di Sperone, centro dei festeggiamenti. E nel cuore palpitavano due emozioni, tenute a bada per un anno intero: l’attesa di quel primo maggio per “l’ammitu” e “u jocu di pignateddi“.

E ricordo quella ressa di bambini davanti alla casa della famiglia Basiricò che per tradizione e per vocazione, ogni anno organizzava, e ancora oggi organizza, un corteo che, partendo dalla loro abitazione accompagna i “Santi” fino alla chiesa . Questi sono due adulti che rappresentano Maria e Giuseppe i quali, con alcuni bambini, di cui uno vestito da Gesù e altri da angioletti, assieme al parroco e alla banda del paese, sfilano verso la chiesa per andare ad assistere alla messa prima e presiedere al banchetto a loro dedicato subito dopo la celebrazione. Noi bambini eravamo molto motivati ad essere scelti per far parte del corteo. Ci aspettava il banchetto, e che banchetto!

Io per essere sicuro di farne parte, mi “prenotavo”, bussando alla porta dei Basiricò, di prima mattina. Una tunichetta di raso bianco, una fascia colorata al petto, una coroncina e delle ali di cartone. Questo era il “kit” da angioletto previsto. Subito, tra noi bambini partiva la guerra su chi dovesse personificare l’arcangelo Gabriele, il bambino che, bandiera alla mano, apriva la processione dei santi; “guerra” subito sedata da nonno Vincenzo, il padrone di casa, che con gentilezza e saggezza sapeva metterci tutti d’accordo. Svoltosi il corteo e celebrata la messa, arrivava il momento dell’invito intorno a mezzogiorno.

Per noi piccoli angioletti iniziava la festa. Mangiavamo qualsiasi cosa; spesso le pietanze che vengono preparate durante l’invito sono nell’ordine di cinquanta o addirittura più, tutti piatti diversi che vanno dall’uovo bollito, alle lasagne, dalle arancine alle cotolette, fino ad arrivare ai cannoli e alla cassata. Venivamo imboccati e a pensarci adesso dico che l’igiene lasciava molto a desiderare perché venivamo imboccati tutti con lo stesso cucchiaio. Ma erano gli anni 80, altri tempi, altro che coronavirus.

Finito il pranzo mi preparavo all’altro grande e atteso evento “u jocu di pignateddi“. Intorno alle tre, la piazza antistante la chiesa si riempiva di bambini con in mano una canna di fiume. Ci sentivamo tutti un po’ cavalieri, immaginando di tenere in mano una lancia e di dover partecipare a una giostra medievale. Gli adulti stendevano una corda alla quale erano fissati un anello di ferro e dei vasi di coccio contenenti delle sorprese. Questa corda si stagliava sopra la strada antistante la chiesa e veniva legata ai pali della luce. Il gioco consisteva nel riuscire, mentre correvamo, a infilare la punta della canna nell’anello.

Erano risate, cadute, urla di incitamento e imprecazioni! Chi riusciva a infilare l’anello aveva diritto a rompere, con un bastone, uno dei vasi in terracotta appesi alla corda, dentro il quale erano stati nascosti i premi. “U succi, u succi” erano le parole con cui i più grandi accompagnavano la rottura di ogni vaso, per farci credere che potesse esserci la possibilità di trovarne uno all’interno. Certo non trovavamo il topo, ma nemmeno grandi sorprese, qualche merendina, qualche pacchetto di gomme da masticare, della cioccolata.

Era come aprire le uova di pasqua, tante aspettative e poca sostanza, eppure aravamo contenti.

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